
Negli ultimi giorni, Michael Burry, il celebre investitore reso famoso dal film The Big Short, è tornato a far parlare di sé. Ma questa volta non per aver previsto un crollo imminente dei mercati, bensì per aver attaccato direttamente il settore più amato e discusso degli ultimi anni: l’intelligenza artificiale e i chip tecnologici.
Secondo Burry, giganti come Oracle, Meta, Google, Microsoft e Amazon starebbero sovrastimando i propri ricavi, arrivando persino a “sfiorare la frode contabile” nei confronti degli investitori.
Una dichiarazione forte che ha scatenato un’ondata di reazioni nel mondo finanziario. Ma è davvero possibile che le big tech Usa stiano gonfiando i conti? O, al contrario, che Burry stia leggendo male la situazione?
Per capirlo, dobbiamo entrare nel cuore del problema: la valutazione degli asset e la depreciation accounting applicata ai chip.
Il cuore della disputa: il valore reale dei chip AI
Per comprendere il ragionamento di Burry, immaginiamo un esempio pratico.
Supponiamo che un’azienda acquisti un aereo da 13 milioni di dollari stimando una durata utile di 13 anni. Gli esperti contabili approverebbero un piano di ammortamento lineare, cioè la ripartizione del costo in quote annuali da 1 milione di dollari.
Lo stesso principio viene applicato oggi da società come Meta o Amazon ai loro data center e alle infrastrutture di intelligenza artificiale: i chip acquistati vengono ammortizzati su più anni, evitando di mostrare un impatto eccessivo sugli utili di un singolo esercizio.
Il problema nasce quando la realtà supera le aspettative: i chip non si svalutano come previsto.
Come dimostrano dati recenti, i TPU di Google (Tensor Processing Unit) con otto anni di utilizzo continuano a funzionare al 100% della capacità. In altre parole, quei chip non solo non si sono deprezzati, ma mantengono un valore reale più alto del previsto.
La domanda esplosiva e la scarsità di offerta
Proprio come accadde durante la pandemia con le automobili usate, oggi il mercato dei semiconduttori vive una situazione straordinaria: la domanda supera ampiamente l’offerta.
Giganti come Nvidia, AMD, Google e Amazon sono eccellenti designer di chip, ma il vero collo di bottiglia sta nella produzione fisica. Le fonderie — da TSMC a Samsung — non riescono a soddisfare le richieste globali.
Il risultato? I chip “vecchi” non perdono valore, anzi, in certi casi vengono rivenduti a un prezzo superiore a quello iniziale.
È come comprare un jet privato, utilizzarlo per tre anni e poi riuscire a rivenderlo con profitto. Paradossale, ma è ciò che sta accadendo nel mercato dei semiconduttori.
Questo scenario rovescia completamente la tesi di Burry: se i chip mantengono o aumentano il proprio valore, le aziende che li ammortizzano secondo i metodi tradizionali stanno in realtà sovrastimando le spese.
Tradotto: i loro utili potrebbero essere persino più alti di quanto dichiarato.
Quando Burry potrebbe avere ragione
Tuttavia, l’argomentazione di Burry non è priva di logica. Il suo scenario si basa su un futuro in cui la domanda per chip AI cala e la produzione cresce.
Immaginiamo che arrivi una recessione o che l’adozione dell’intelligenza artificiale subisca una brusca frenata. In quel caso, i chip accumulati oggi perderebbero rapidamente valore, costringendo le aziende a rivedere al ribasso i propri bilanci.
Burry stima che, entro il 2028, società come Oracle e Meta potrebbero sovrastimare i ricavi rispettivamente del 27% e del 20% a causa di un eccessivo ottimismo nelle previsioni. Uno scenario plausibile se l’attuale euforia per l’AI dovesse sgonfiarsi e il mercato ritornasse a livelli di domanda “normali”.
L’analogia del jet: un ciclo economico in miniatura
L’esempio del jet è illuminante. Quando la domanda supera l’offerta, anche asset normalmente deperibili — come un aereo o un chip — possono rivalutarsi.
Ma nel momento in cui l’equilibrio si ristabilisce, i prezzi tornano a scendere.
Durante il 2020-2021, le auto usate aumentavano di valore mese dopo mese; oggi, la situazione si è normalizzata. Lo stesso accadrà con i semiconduttori: quando la produzione supererà la domanda, i chip AI torneranno a essere beni soggetti a rapida obsolescenza.
È in quella fase che la teoria di Burry potrebbe rivelarsi fondata. Le società, che oggi ammortizzano lentamente i loro asset, potrebbero trovarsi costrette a svalutarli più rapidamente, restituendo un’immagine meno brillante dei propri utili.
Per gli investitori, riconoscere per tempo questo punto di svolta sarà essenziale per anticipare le correzioni di mercato.
Cosa significa per gli investitori
Nel breve periodo, chi segue la visione di Burry potrebbe perdere il treno: il settore AI è in piena espansione, i margini sono elevati e l’offerta è ancora limitata. Ma nel medio-lungo termine, le sue preoccupazioni non sono da sottovalutare.
L’attuale sopravvalutazione dei chip e dei data center AI potrebbe trasformarsi in un rischio di revisione contabile fra pochi anni, con conseguenze pesanti sui titoli tecnologici più esposti.
Il messaggio per gli investitori è duplice:
- essere consapevoli che l’euforia di oggi può nascondere eccessi,
- riconoscere che, fino a quando la domanda resterà elevata e i margini solidi, il trend rialzista può ancora durare.
La vera opportunità sarà individuare l’inizio della fase di inversione, quando la produzione di chip si allineerà alla domanda e i colossi tech inizieranno a ridurre gli investimenti in capex. Quel momento segnerà il cambio di ciclo.
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