
Negli ultimi anni, il mercato azionario statunitense ha registrato una delle crescite più rapide della sua storia recente. L’S&P 500, indice che raccoglie le principali società quotate negli Stati Uniti, è cresciuto di quasi il 100% negli ultimi cinque anni, spingendo numerosi analisti a parlare di “everything bubble”, la cosiddetta bolla di tutto.
A differenza del 2008, quando la crisi immobiliare scatenò il collasso dei mercati globali, oggi ci troviamo di fronte a valutazioni gonfiate che coinvolgono settori molto diversi tra loro. Non si tratta soltanto di un comparto surriscaldato, ma di un sistema nel suo complesso che sembra muoversi oltre ogni logica tradizionale di valutazione.
Eppure, nonostante multipli fuori scala e prezzi ai massimi storici, la correzione tanto attesa non è arrivata. Per comprendere questa apparente contraddizione, occorre analizzare con attenzione il fenomeno dei buyback azionari, il vero motore che sostiene i listini.
Valutazioni fuori controllo: il peso delle big tech
Uno degli elementi più discussi quando si analizza il mercato azionario riguarda le valutazioni delle big tech. Negli ultimi anni, società come Apple, Nvidia, Amazon e Tesla hanno raggiunto livelli di capitalizzazione mai visti prima, alimentando l’idea di una vera e propria bolla finanziaria.
Il parametro più utilizzato per misurare la congruità di un titolo è il P/E ratio (Price/Earnings), ossia il rapporto tra il prezzo di un’azione e gli utili generati per azione. Storicamente, un P/E compreso tra 15 e 20 è considerato accettabile per aziende solide e mature. Valori superiori a 25 indicano un premio pagato dagli investitori per aspettative di crescita future, ma quando si superano certi livelli, si entra nel territorio della sopravvalutazione.
- Apple presenta un P/E pari a 37, nonostante la sua dimensione colossale e una crescita che, fisiologicamente, tende a rallentare con l’espansione del business.
- Nvidia, regina del settore dei semiconduttori e dell’AI, mostra un P/E di 53, il doppio rispetto a quanto solitamente tollerato anche per le società tecnologiche più dinamiche.
- Amazon, con un P/E di 33, è meno estrema, ma resta su valori elevati per un’azienda che ormai ha superato la fase di startup ed è entrata nella piena maturità del ciclo economico.
- Tesla, con un P/E di 252, rappresenta il caso più eclatante: numeri che ricordano le euforie speculative della bolla dot-com.
In termini pratici, ciò significa che gli investitori pagano oggi multipli altissimi per utili che potrebbero non materializzarsi nei tempi sperati. Questo squilibrio rende evidente che i prezzi sono sostenuti non solo da prospettive di crescita, ma da dinamiche finanziarie esterne, tra cui i massicci programmi di buyback.
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Perché il mercato non crolla: l’impatto dei buyback
La domanda che molti si pongono è: se il mercato è così sopravvalutato, perché non si verifica un crollo? La risposta risiede in gran parte nei riacquisti di azioni proprie da parte delle società quotate.
Nel solo 2025, le aziende americane hanno speso oltre 1.000 miliardi di dollari in buyback, un valore che rappresenta un sostegno artificiale ma potentissimo ai corsi azionari. Questo meccanismo riduce il numero di azioni in circolazione, aumentando automaticamente l’EPS (Earnings per Share). Anche senza una crescita reale degli utili, il titolo appare più redditizio, inducendo gli investitori a considerarlo più solido.
Il fenomeno non è nuovo, ma negli ultimi vent’anni ha assunto dimensioni enormi. Per fare un confronto: nei primi anni 2000 i buyback complessivi ammontavano a circa 168 miliardi di dollari annui; oggi, siamo oltre sei volte quella cifra.
Le società leader nel ricorso a questa pratica sono proprio le big tech:
- Apple guida con circa 100 miliardi spesi nel 2025.
- Alphabet (Google) ha destinato 70 miliardi allo stesso scopo.
- Nvidia ha superato i 60 miliardi, sostenendo un rally già spinto dall’entusiasmo sull’AI.
Sommati insieme, questi programmi hanno creato un flusso di domanda interna capace di impedire una discesa dei mercati, nonostante le condizioni macroeconomiche meno favorevoli.
Dividendi o buyback? La scelta delle aziende
Fino a pochi decenni fa, la principale forma di remunerazione per gli azionisti era rappresentata dai dividendi. Oggi, i buyback hanno assunto un ruolo dominante per ragioni fiscali, strategiche e persino psicologiche.
Distribuire dividendi significa trasferire utili direttamente agli azionisti, i quali sono però obbligati a pagare imposte sui proventi ricevuti. Con i buyback, invece, il valore delle azioni aumenta senza generare immediatamente una tassazione diretta. Per gli investitori istituzionali e i grandi patrimoni, questo rappresenta un vantaggio significativo.
Un altro fattore determinante riguarda la remunerazione dei manager. I CEO e i dirigenti delle principali società americane ricevono gran parte della loro compensazione sotto forma di stock option o azioni vincolate. Ne consegue che hanno un interesse diretto nel sostenere le quotazioni: un buyback che spinge il prezzo in alto accresce i loro guadagni personali.
Va considerata anche la scarsità di opportunità di investimento produttivo. In un contesto in cui i tassi di crescita economica non offrono margini di espansione rapida, le aziende preferiscono “scommettere su sé stesse” piuttosto che rischiare acquisizioni o investimenti industriali incerti.
Infine, non va trascurato l’effetto inflazione: detenere enormi riserve di liquidità in una fase di svalutazione del potere d’acquisto significa erodere valore. Meglio reinvestire quei capitali nei propri titoli, aumentando così il ritorno per gli azionisti.
L’inflazione reale e l’effetto distorsivo
Il contesto macroeconomico gioca un ruolo decisivo. Ufficialmente, l’inflazione statunitense si aggira intorno al 3%, ma analizzando i costi reali della vita — affitti, immobili, servizi essenziali — la crescita dei prezzi è molto più elevata, stimata tra il 7% e il 10%.
Le grandi società ne sono consapevoli: detenere liquidità equivale a vederne ridotto il potere d’acquisto. Ecco perché preferiscono trasformare la cassa in buyback, considerati un modo più sicuro per difendere e far crescere il valore azionario.
Parallelamente, gli investitori più ricchi utilizzano le azioni come garanzia per ottenere liquidità dalle banche. In questo modo, non hanno necessità di vendere e possono continuare a beneficiare della rivalutazione dei titoli.
In sintesi: il vero equilibrio di Wall Street
L’attuale forza di Wall Street non deriva soltanto dalla solidità economica delle aziende quotate, ma soprattutto dai buyback, che hanno creato un sostegno artificiale alle quotazioni. Questa pratica ha permesso al mercato azionario di rimanere in ascesa nonostante i segnali di bolla finanziaria, le valutazioni estreme e l’aumento dell’inflazione.
Le big tech, con Apple, Nvidia e Tesla in prima linea, sono i protagonisti di questa fase. Da un lato, gli azionisti beneficiano di titoli sempre più preziosi, che possono utilizzare persino come garanzia per ottenere liquidità dalle banche. Dall’altro, cresce il rischio che un rallentamento degli utili o una riduzione dei buyback possa innescare correzioni improvvise.
Il vero equilibrio di Wall Street si regge dunque su un patto implicito tra aziende e investitori: finché i profitti saranno destinati a riacquisti miliardari, il mercato terrà. Ma quando questo sostegno verrà meno, le quotazioni dovranno confrontarsi con i fondamentali reali, ed è lì che emergerà la fragilità di un sistema costruito su basi parzialmente artificiali.
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